Busia, CD, Sardegna: inaugurata a Capoterra la Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems).
Il 23 luglio 2015 è una data importante: È stata inaugurata a Capoterra la Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems). La struttura sanitaria è stata predisposta per accogliere i pazienti affetti da patologie psichiche e autori di reati, per i quali la magistratura abbia disposto una misura di sicurezza di tipo detentivo.
La Sardegna è tra le prime regioni in Italia ad aver dato attuazione alla legge 81 del 2014, consentendo ai sardi internati nelle strutture della Penisola, di poter fare rientro in Sardegna.
E’ questa, la tappa conclusiva di un lungo percorso iniziato nel 2008 e conclusa con la legge 8 del 2014, che ha portato al definitivo superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, macchia intollerabile nel nostro sistema penale cosiddetto a “doppio binario”.
Cosa significa a doppio binario: la soluzione adottata dal nostro codice penale prevede una differenziazione tra coloro che pongono in essere un fatto preveduto dalla legge come reato a seconda che siano o meno imputabili: il regime delle pene ( ergastolo, reclusione e multa per i delitti; arresto e ammenda per le contravvenzioni) per il reo responsabile e le misure di sicurezza personali (ospedale psichiatrico giudiziari, libertà vigilata) per il reo non responsabile, ma pericoloso.
Tale impostazione, adottata dal legislatore del 1930, nata dalla fusione di due diverse scuole di pensiero, ha portato nel tempo a rendere inevitabili le interferenze tra l’una e l’altra risposta sanzionatoria. Si è assistito, in via crescente, ad una sostanziale equiparazione dei presupposti applicativi delle pene alle misure di sicurezza, fino a determinarne una medesima identità afflittiva.
Ma, mentre la pena è determinata e quantificabile, la misura di sicurezza è senza una durata predefinita e termina solo con il venir meno della pericolosità sociale del soggetto interessato.
Non è raro che soggetti ai quali sia stata applicata la misura di sicurezza del ricovero presso l’ospedale psichiatrico giudiziario, perché autori di reati bagatellari, abbiano trascorso in istituto svariati anni senza soluzione di continuità.
Non può revocarsi in dubbio che con il sistema del doppio binario si sia di fatto posta in essere quella che è stata efficacemente definita da più di un autore, una “truffa delle etichette”; a fronte di una esigenza di contenimento del soggetto pericoloso, vi è stato un sacrificio evidente della “presa in carico trattamentale” del paziente- reo.
E su questo punto non sono mancati negli anni i rilievi della Corte Costituzionale la quale ha evidenziato lo squilibrio, a favore della difesa sociale, della necessità di cure del reo-malato.
Non solo.
Ha lamentato l’inerzia del legislatore di fronte alla enorme differenza esistente tra il patrimonio di conoscenze scientifiche – in tema di malattie psichiatriche – esistente al momento della codificazione del codice Rocco e quelle attuali, sempre meno propense a adottare provvedimenti restrittivi della libertà in casi di disturbi psichici.
Per queste ragioni il sistema è stato più volte criticato anche dagli studiosi più attenti, tanto da mettere in dubbio la compatibilità costituzionale degli ospedali psichiatrici giudiziari per evidente violazione dell’art. 32 della Carta.
La domanda ricorrente era: il trattamento sanitario obbligatorio, forzato all’interno dell’Opg corrisponde in ogni sua fase ad una necessità terapeutica o persegue scopi diversi e necessità diverse dall’interesse ( al trattamento sanitario) del paziente?
E sempre su queste perplessità che la Corte Costituzionale ha censurato l’automatismo determinatosi tra assoluzione per infermità psichica e applicazione di misura di sicurezza in O.P.G. in caso di accertata pericolosità sociale, tanto da sollecitare – in più occasioni – il ricorso alla misura della “ libertà vigilata”, strumento maggiormente “malleabile” e “adeguabile” alle esigenze del paziente-reo.
Serviva dunque un grande lavoro, un cambiamento innanzitutto culturale; il sistema italiano doveva essere riformato ed essere in linea con le moderne legislazioni europee e i principi contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) , ratificata dall’Italia nel 1955.
Ed ancora: l’Italia è parte contraente della Carta sociale europea e della Convenzione per la prevenzione della tortura. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura – i cui componenti sono indicati dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa – ha in più occasioni ( a partire dal 1992 e fino al 2008) visitato gli ospedali psichiatrici giudiziari italiani denunciando la totale inadeguatezza e la vetustà delle strutture, le pessime condizioni di vita all’interno degli istituti, l’eccessivo uso della forza e in particolare dei letti di contenzione e la totale assenza di trattamenti terapeutici.
Nel frattempo nel Paese maturava la necessità di una diversa impostazione di tutta la sanità penitenziaria e del trattamento dei pazienti psichiatrici autori di reati.
Il cambiamento si percepisce nel 2008 con l’emanazione dell’Allegato C al DPCM 19 Marzo 2008 “Linee di indirizzo per gli interventi negli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e nelle case di cura e custodia”, per continuare con l’art. 3-ter della legge 9 del 17 febbraio 2012 e terminare con la legge 8 del 2014.
Il processo che doveva portare al diverso approccio con il “paziente reo” prevedeva più fasi: occorreva partire da una cd “sanitarizzazione”, cioè una gestione integralmente sanitaria degli internati, fino ad arrivare ad una completa territorializzazione dei ricoveri degli internati presso strutture gestite dalla sanità regionale e laddove era possibile una presa in carico trattamentale degli stessi da parte dei servizi sanitari territoriali.
Ci sono state forti perplessità sulla fattibilità della riforma. In un momento di crisi economica, i limiti finanziari e i termini perentori della legge 9/2012, prima e del 8/2014 facevano pensare a molti che difficilmente si poteva realizzare un vero e proprio superamento definitivo degli OPG.
Il timore più rilevante era dato dal fatto che non tutti i servizi territoriali riuscissero ad individuare delle strutture che potessero fornire le necessarie cure ai malati, occuparsi del reinserimento sociale degli stessi e potessero al contempo dare garanzie in termini di sicurezza sociale.
La Sardegna ce l’ha fatta.
Partita con grande ritardo rispetto alle altre regioni italiane è riuscita in una missione che sembrava impossibile e il 23 luglio ha inaugurato la nuova struttura che consentirà agli internati sardi di poter fare rientro sull’isola.
Ora occorrerà vigilare che le nuove strutture, nate o in via di organizzazione su tutto il territorio nazionale non diventino nuovi ghetti chiusi ai diritti umani e al mondo.