La riduzione della pressione fiscale e la riqualificazione della spesa pubblica non sono sufficienti a far ripartire la crescita e aumentare l’occupazione, se non si rimuovono in modo deciso le barriere di varia natura che limitano l’iniziativa economica privata e l’ingresso di nuovi operatori nel mercato dei prodotti e dei servizi.
La libertà d’impresa e la concorrenza sono una garanzia di efficienza e produttività del sistema economico e un presidio fondamentale per difendere il potere di acquisto dei consumatori.
Pagare meno tasse potrebbe non servire a nulla se al contempo aumentano i prezzi e le tariffe dei servizi cui nessuno può rinunciare (elettricità, gas, trasporti, banche, assicurazioni, servizi professionali, ecc.)
Per queste ragioni noi ci impegniamo a rilanciare una vasta e radicale azione di liberalizzazione delle attività economiche che ponga al centro gli interessi del cittadino consumatore, contrasti i conflitti d’interesse e favorisca la nascita di nuove imprese.
A tal fine occorre, tra l’altro, rafforzare l’operatività e i poteri sanzionatori delle Autorità di vigilanza e regolazione di settore, a cominciare dall’Antitrust; riformare il sistema dei servizi pubblici locali, in particolare nel settore dei trasporti, del ciclo delle acque e dei rifiuti, favorendo la contendibilità nelle gare per l’individuazione dei gestori, che devono essere vincolati a rigidi standard di qualità nell’erogazione dei servizi e sottoposti a procedure di continua valutazione da parte dell’utenza; completare i processi di separazione proprietaria tra le infrastrutture di rete e i fornitori dei servizi (come nel caso di rete ferroviaria/FS, rete gas/Snam ed Eni) ed eliminare i sussidi alle imprese distorsivi della concorrenza.
Allo stesso modo, noi crediamo che il rilancio della crescita e dell’occupazione non possa essere affidato solo al pieno dispiegarsi delle forze del libero mercato e che le azioni a favore di una maggiore concorrenza nel sistema economico debbano essere affiancate da più audaci politiche per lo sviluppo.
Gli sforzi finora compiuti e i pur apprezzabili interventi per la crescita, recentemente introdotti, sono, infatti, insufficienti a invertire con rapidità il circolo vizioso di contrazione dei consumi, degli investimenti e dell’occupazione che ha fatto precipitare l’Italia nella seconda e ancor più acuta, per i risvolti occupazionali, fase recessiva degli ultimi cinque anni.
I nodi strutturali dell’economia italiana, grazie anche alle analisi condotte dalla Commissione europea, sono stati ampiamente messi a fuoco: il livello di competitività, in caduta libera a partire dalla fine degli anni ’90, come testimoniano la perdita di quote di mercato e il saldo delle partite correnti, passato da un surplus del 2% del PIL a un deficit del 3,2% nel 2011; la bassa produttività totale dei fattori e, in particolare, la perdita di competitività connessa al costo unitario del lavoro, che è peggiorata rispetto a tutti gli altri partner dell’eurozona; il basso livello specializzazione produttiva, che espone le esportazioni di prodotti ad alta intensità di lavoro e a bassa intensità tecnologica alle pressioni della competizione globale e limita la penetrazione commerciale nei mercati dei Paesi emergenti, e in particolare del Sud-est asiatico.
E ancora: la scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro; le restrizioni all’accesso al credito e al capitale di rischio, in particolare per le PMI; la segmentazione e rigidità del mercato del lavoro e la mancanza di osmosi dello stesso con il sistema della formazione dell’istruzione; il gap organizzativo e tecnologico della pubblica amministrazione; l’inadeguatezza infrastrutturale e delle interconnessioni; il costo dell’energia; l’inefficienza della giustizia civile; la complessità del sistema normativo. Tutti questi fattori, ampiamente noti, hanno fatto sì che l’Italia, negli ultimi 20 anni, abbia registrato tassi di crescita del PIL costantemente inferiori a quelli dei Paesi dell’Unione economica e monetaria.
Ma capire le cause della malattia dell’economia italiana non è sufficiente per curarne i sintomi. Così come non basta condividere le raccomandazioni per la crescita, anch’esse apprezzabili, formulate dalla Commissione UE nell’ambito della procedura del Semestre europeo, se la loro traduzione sul piano interno non si realizza nell’ambito di un progetto complessivo di riforme radicali, capaci di generare uno shock macroeconomico nel breve termine – per far ripartire la domanda aggregata – e un riposizionamento del sistema economico nel medio e lungo periodo.
La situazione dell’economia italiana richiede oggi una strategia di politica economica coordinata nei diversi ambiti e articolata in due fasi tra loro complementari: una fase emergenziale anticiclica, volta a evitare nell’immediato che il protrarsi della caduta del prodotto si trasformi in una riduzione strutturale della capacità produttiva e del potenziale di crescita, con la definitiva chiusura di aziende e perdita di posti di lavoro; e una fase di più largo respiro, volta a realizzare una profonda trasformazione e riconversione del tessuto economico e produttivo verso i settori a più elevato valore aggiunto.
La riforma fiscale, sopra illustrata, da negoziare con le istituzioni europee nel rispetto dei vincoli di bilancio, è il mezzo principale attraverso il quale intendiamo combinare tra loro queste due fasi, in piena coerenza con gli obiettivi della Strategia Europa 2020.
L’utilizzo selettivo della leva fiscale e la ricomposizione delle fonti di gettito può, nell’immediato: sostenere i consumi, attraverso la riduzione del prelievo per le fasce di reddito medio-basse; far ripartire gli investimenti privati, attraverso agevolazioni mirate anche a promuovere la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione tecnologica, nonché ad attrarre gli investimenti esteri; ridurre il tasso di disoccupazione, attraverso incentivi per lo start up delle nuove imprese e per le assunzioni, in particolare di giovani e donne.
Nel medio periodo la revisione del sistema tributario e l’emersione di basi imponibili connesso alla lotta all’evasione e all’economia sommersa, consentirà di rafforzare il processo di riduzione del prelievo e, in particolare, di riduzione del cuneo fiscale sul lavoro, promuovendo, nei termini sopra esposti, la competitività e la sostenibilità del sistema economico.
Parallelamente, e contestualmente, occorre avviare una nuova e incisiva fase di spending review – incentrata anche sulla predetta revisione sistematica delle leggi sottese ai programmi di spesa – attraverso la quale reperire, nel breve termine, almeno 1 punto di PIL (16 miliardi di euro circa), da destinare al rilancio degli investimenti della pubblica amministrazione.
La caduta verticale delle spese in conto capitale, passate dai 66 miliardi del 2009 ai 48 miliardi del 2011 e stimate in ulteriore contrazione sino al 2015, è una delle cause principali della caduta del PIL nazionale.
Per uscire con più celerità dalla crisi non si può dunque prescindere dall’apporto anche della domanda pubblica, che attraverso la riqualificazione della spesa deve essere reindirizzata verso i settori con maggiori potenzialità di crescita e occupazionali: l’edilizia (residenziale, sanitaria e scolastica); la mobilità e la logistica; il riassetto idrogeologico; lo sviluppo urbano; il restauro dei beni culturali; la ricerca; la digitalizzazione della PA.
Tale processo va reso sinergico con l’attuazione del Piano d’azione per la coesione, migliorando il tasso di assorbimento dei fondi strutturali europei, in particolare nel Mezzogiorno.
Allo steso tempo, la riforma del Welfare, anch’essa sopra illustrata, deve essere modulata in modo tale da rendere gli istituti di protezione sociale funzionali alla crescita economica.
In questo senso, una maggiore flessibilità del mercato del lavoro deve, inderogabilmente, essere subito accompagnata da una riforma del sistema degli ammortizzatori sociali che preveda un sistema integrato d’indennità per la disoccupazione involontaria e per i periodi di transizione verso nuovi posti di lavoro, la cui corresponsione va subordinata al diritto-dovere a partecipare a programmi di politiche attive del lavoro e di formazione permanente.
Solo una strategia integrata di flexicurity edi politiche di workfare, volta a promuovere contemporaneamente la flessibilità e la sicurezza sul mercato del lavoro, appare in grado di vincere le resistenze al cambiamento da parte delle parti sociali, ciascuna delle quali non potrà che trarre vantaggi da un maggior dinamismo del sistema economico diretto ad accrescere la produttività e l’occupazione complessiva – e in particolare quella delle donne, dei giovani e dei lavoratori anziani – a ridurre i tassi di coloro che sono a rischio povertà e a valorizzare, in tutte le sue forme, il capitale umano.
Per queste ragioni, intendiamo promuovere l’avvio di una nuova stagione di concertazione, che veda la più ampia partecipazione di tutte le forze sociali – sindacati, associazioni datoriali e mondo del no profit – intorno a un progetto complessivo di riforme diretto anche a completare e rivisitare in alcune parti la riforma del mercato del lavoro approvata dal Governo Monti, potenziandola nell’ambito di una più vasta strategia di sviluppo del sistema Paese che non faccia leva soltanto sulla flessibilità e sul principio della moderazione salariale per il ripristino della competitività dei costi.
Alla politica di contenimento salariale – condotta sin dagli anni ‘90 – ha fatto seguito una serie d’interventi che hanno elevato sensibilmente la precarietà del lavoro, scaricando sulle nuove generazioni il peso di una flessibilità considerata indispensabile alla competitività del sistema produttivo tanto quanto lo erano state in passato le svalutazioni della lira.
Questa è una delle grandi questioni che intendiamo affrontare, poiché all’interno di un calo occupazionale generalizzato, si registra da tempo una riduzione dei dipendenti stabili a tempo indeterminato a vantaggio di figure contrattuali a tempo parziale, a tempo determinato e di collaboratori. E all’interno di questo quadro si registrano le difficoltà più accentuate dei giovani e delle donne, soprattutto nel Mezzogiorno.
Alla luce di queste tendenze, intendiamo porre la questione della precarietà del lavoro – pubblico e privato – e dell’occupazione, in particolare giovanile e femminile, al centro dell’agenda di riforme, nella consapevolezza che la ripresa dell’occupazione segue sempre a distanza nel tempo l’inversione del ciclo negativo e che pertanto senza misure straordinarie sarebbero necessari molti anni per riassorbire una disoccupazione che si attesta intorno al 12 per cento, con il rischio, peraltro, di elevare in misura non tollerabile la disoccupazione di lungo periodo.
A tal fine, riteniamo necessario attivare un insieme di misure che possano già nel breve termine ridurre il tasso di disoccupazione, quali:
- la definizione di agevolazioni fiscali e contributive per le nuove assunzioni, da perseguire sia agendo sulla base imponibile dell’IRAP, sia rafforzando il credito d’imposta per le nuove assunzioni di lavoro stabile nel Mezzogiorno, sia, infine, prevedendo, come sopra accennato, la sterilizzazione della componente contributiva del cuneo fiscale per i nuovi occupati e per un periodo di tre anni dalla data di assunzione;
- l’incentivazione del part-time volontario ed intergenerazionale e del pensionamento flessibile, per favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro in sostituzione dei lavoratori più anziani attraverso lo sviluppo di accordi di “ponte generazionale”, che oltre a favorire la produttività, incentivando le aziende a reclutare forze nuove e dinamiche, sosterebbe anche i consumi interni di fasce sociali in forte sofferenza;
- la ridefinizione delle politiche formative di base, professionali e universitarie, per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, valorizzando l’istituto dell’apprendistato e promuovendo una maggiore osmosi tra la scuola e gli istituti di formazione professionale e le aziende.
Nel quadro di questa impostazione generale di politica economica e in coerenza con gli obiettivi della Strategia Europa 2020, potranno essere adottate le altre politiche di sviluppo settoriali di cui l’Italia ha bisogno.
Noi crediamo, infatti, che l’Italia abbia bisogno di una nuova stagione di Politiche industriali, che non si esauriscano nella difesa d’ufficio e retorica del made in Italy, ma che sappiano accompagnare i processi di ristrutturazione produttiva e sostenere realmente – sul piano fiscale, creditizio e amministrativo – i costi e i rischi che le imprese sono disposte a sostenere per salvaguardare o allargare le basi occupazionali, per internazionalizzarsi, per mantenere o riallocare gli impianti sul territorio nazionale e per fare investimenti in ricerca e innovazione lungo tutti i livelli della catena del valore.
L’Italia ha bisogno di politiche energetiche lungimiranti, che non si limitino a garantire i pur fondamentali assetti concorrenziali dei mercati dell’energia elettrica e del gas, ma che sappiano promuovere modelli di produzione e consumo fondati sul risparmio e l’efficienza energetica e orientare il mercato a sfruttare appieno quello straordinario patrimonio di sole, vento, acque, foreste e campagne, dal quale è possibile estrarre quell’energia pulita che è l’unica riposta alla fragilità sistemica dell’era dei combustibili fossili.
L’Italia ha bisogno di un mercato creditizio e finanziario trasparente, dove le banche operino al servizio dell’economia reale e non solo dei propri manager e azionisti; un mercato che assicuri un adeguato flusso di credito alle famiglie e alle imprese e che sappia valorizzare la finanza etica e la finanza sostenibile, premiando gli investimenti socialmente e ambientalmente responsabili, anziché un mercato opacizzato dai derivati, inquinato dall’economia criminale e attratto dalla speculazione di breve periodo.
L’Italia ha bisogno di politiche infrastrutturali e dei trasporti innovative, che nel segno della mobilità sostenibile valorizzino la portualità e le autostrade del mare, la rete ferroviaria e le metropolitane, attuando al contempo un grande piano di sostituzione del parco dei veicoli pubblici e privati con veicoli a basse emissioni di gas serra atto a far respirare le nostre città.
L’Italia ha bisogno di una politica dei prodotti e dei rifiuti all’avanguardia, che sappia condurci a una civiltà dove i beni e le risorse naturali (acqua, vetro, carta, plastica, legno, alluminio, ecc.) non si “consumano”, ma si usano e riusano illimitatamente, secondo modelli di produzione e consumo fondati sulla teoria dei cicli chiusi.
L’Italia ha bisogno di una politica agricola di qualità, che oltre a ridurre i costi della filiera, valorizzare le tipicità nazionali e garantire la sicurezza dei prodotti, sappia contribuire attivamente agli obiettivi di riduzione delle emissioni imposti dal surriscaldamento del pianeta prima ancora che dagli obblighi internazionali, valorizzando il potenziale energetico dei residui agricoli e forestali e implementando i pozzi di assorbimento del carbonio. Una politica che sappia arrestare la cementificazione selvaggia e impedire la continua contrazione dei suoli a uso agricolo, incentivare l’ingresso in agricoltura dei giovani, sviluppare le attività di ricerca e rendere più incisivi i controlli nella filiera per la tutela dei consumatori e degli imprenditori agricoli.
E ancora, nella promozione del turismo, nella valorizzazione delle bellezze artistiche e paesaggistiche, nelle politiche del territorio, nell’edilizia pubblica e privata, il Paese ha bisogno di politiche di sviluppo avanzate e innovative, che solo una visione complessiva, capace di coniugare in modo nuovo pubblico e privato, economia ed ecologia, finanza ed etica, può consentire di realizzare.
Le grandi opere, le grandi infrastrutture materiali e immateriali di cui il Paese ha realmente bisogno, potranno così essere realizzate con uno sforzo corale di tutti gli attori politici, economici e sociali, che dovrà essere sostenuto da una Pubblica Amministrazione all’avanguardia e da fiscalità intelligente, capace di premiare selettivamente l’adozione di modelli di produzione efficienti e stili di consumo responsabili.